The Shame of the United Nations

When it comes to reforming the disgraceful United Nations Human Rights Commission, America’s ambassador, John Bolton, is right; Secretary General Kofi Annan is wrong; and leading international human rights groups have unwisely put their preference for multilateral consensus ahead of their duty to fight for the strongest possible human rights protection. A once-promising reform proposal has been so watered down that it has become an ugly sham, offering cover to an unacceptable status quo. It should be renegotiated or rejected.

Some of the world’s most abusive regimes have won seats on the Human Rights Commission and used them to insulate themselves from criticism. Current members include Sudan, which is carrying out genocide; Nepal, whose absolute monarch has suspended basic liberties; and Saudi Arabia, where women have few rights. All are gross violators of the Universal Declaration of Human Rights, the commission’s founding document.

Ideally, violators of the declaration should be barred from the new Human Rights Council, which would succeed the commission. Mr. Annan’s original proposal did not go that far. But it significantly raised the bar by requiring a two-thirds majority in the General Assembly to win a seat. This essential change has been eliminated and replaced by a technical adjustment barely visible to the naked eye. Slates will still be nominated by regional blocs without regard to human rights performance. A few other incremental improvements are not enough to redeem this pathetic draft. Approving it, as groups like Human Rights Watch and Amnesty International wrongly urge, would take off the heat for meaningful change.

Mr. Bolton, representing an administration whose record is stained by Guantánamo and Abu Ghraib, is awkwardly placed to defend basic human rights principles. But he also represents the United States, with its long and proud human rights tradition. We hope that his refusal to go along with this shameful charade can produce something better.

Editoriale odierno del New York Times, uno di quelli che danno la linea del giornale.

 

Il Pci ai giovani
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano,
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache, o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese);
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali):
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.

Pier Paolo Pasolini

So fast, so numb
Odio gli autobus. Soprattutto quelli rumorosi. Odio dover alzare il volume delle cuffiette sopra una certa soglia, e per questo quando salgo su un autobus mi fermo sempre nella parte anteriore, il più lontano possibile dal frastuono del motore. E in generale, anche se riconosco che la maggior parte delle canzoni avrebbe bisogno di un buon volume per assere ascoltata degnamente, preferisco mantenermi su livelli bassi, perchè ho a cuore la salute sia delle mie orecchie, sia della mia testa. Anche se capita di scoprire che certe canzoni si apprezzano di più con un po’ di rumore, costante, di sottofondo, che ne annulla la maggior parte del volume. Certo, avevo letto che quella mattina del 5 Aprile la voce di Micheal Stipe era un sussurro amichevole mentre cantava dell’uomo sulla luna, ma non l’avevo mai provato personalmente. Ma capita di salire su uno di quegli autobus lunghi, di essere bloccati nella parte posteriore, di non aver voglia di togliersi le cuffie o di alzare il volume, e ci si accorge di quanto intorpidente è quel sussurro di Stipe. Così, so fast so numb.