Vengo dalla lettura di The Power of Habit di Charles Duigg (tratto in italiano con La dittatura delle abitudini). In qualche modo, l’idea che le cose che tipicamente danno dipendenza (denaro, sesso, alcol, droga, gioco d’azzardo, social network, in una parola: dopamina, ma questo è il tema per un altro post), siano in sé sostanze neutre, mentre ad essere sbagliato è l’uso che l’uomo ne fa, non mi ha mai convinto. Voglio dire, c’è persino una puntata dei Simpson a riguardo, quella in cui Homer va a fare il missionario in una qualche isoletta nel Pacifico e trasforma un popolo del tutto sereno ed equilibrato in una banda di dipendenti grazie a un tavolo da blackjack e a un bar con ampia selezione di birre.
Insomma, a me sembra un po’ una razionalizzazione con il fine di giustificare lo status quo, che è negata da più o meno quello che si osserva nella vita di tutti i giorni di tutti gli uomini.
Ora, entrino in scena due esperimenti che cominciano con il nome Stanford.
Il primo è il marshmallow experiment, in cui a dei bambini di quattro anni viene posto davanti agli occhi un caramellone spugnoso, sotto la promessa che se al ritorno dell’esaminatore nella stanza dieci minuti dopo il caramellone fosse ancora al suo posto, ne verrà dato un altro come ricompensa. Andando a seguire i bambini partecipanti nel corso della loro vita successiva, si vede che chi ha superato il test straccia chi non l’ha passato in ogni possibile ambito. Guardando i video dei test si nota una differenza:
I bambini che superano il test (tralaltro, quello qui sopra assomiglia in maniera impressionante allo scrivente — non che io l’avrei superato a quattro anni) adottano la strategia di cercare di dimenticare la presenza del marshmallow togliendoselo dalla vista.
Quelli che falliscono invece non riescono a non ricordarsi costantemente della presenza della tentazione.
Quindi, la pura forza di volontà non spiega la differenza tra i due gruppi; ma conta più che altro la strategia che si mette in atto per permettere alla propria forza di volontà di sopportare il carico della sfida.
Il secondo è il prison experiment, in cui un gruppo di ragazzi del tutto comuni e normali viene diviso tra carcerieri e carcerati e la fittizia prigione viene lasciata senza sorveglianza esterna. Dopo pochi giorni sia assiste alla trasformazione dei carcerieri che diventano, in una parola, cattivi: cominciano a umiliare e a vessare i detenuti per nessuna ragione se non un sadico divertimento. Ciò è identico a quanto è accaduto nella prigione di Abu Ghraib durante l’ultima guerra in Iraq. L’immersione nel ruolo di guardia, la totale libertà di azione e di possesso sui detenuti, l’impunità dovuta alla mancanza di sorveglianza esterna hanno sopraffatto la capacità di giudizio razionale e il senso morale di quei ragazzi, trasformandoli letteralmente in dei mostri.
D’altronde il penultimo verso del Padre Nostro è w-la’ ta’lan l-nesjuna’, cioè, nella mia interpretazione, “Padre sottoponici a una tentazione che siamo in grado di superare, e non a una superiore”.