The end is where we start from. TS Eliot lo diceva nell’ultimo dei suoi quartetti e io l’ho sempre trovato vero. Per questo oggi sono tornato dove è cominciato tutto. O perlomeno, molto.
Volevo arrivare alla Basilica della Salute in tempo per la compieta, l’ultima preghiera della sera. Volevo arrivare e ce l’ho fatta, nonostante l’aubotus dell’Actv in ritardo del 100% (15 minuti su 15 di tragitto dal capolinea, a strade sgombre s’intende), nonostante abbia sbagliato più volte strada a Venezia, intestardendomi a volerne fare una più lunga in modo da giungere alla basilica nel modo migliore, attraverso il ponte votivo galleggiante.
Sono arrivato ed era sempre là, la mia chiesa preferita, la basilica del Longhena col le sue volute che la parallasse gradatamente disvela dal contorno dei palazzi sul Canal Grande. Dentro una cinquantina di persona, il ché mi ha confermato come fosse quello sicuramente il momento più adatto per rendere omaggio alla più bella festa veneziana, lontano dalle masse che ne avevano calpestato i pavimenti per tutta la giornata.
Dicevo, sono tornato da dove avevo cominciato perché il 20 novembre 2003 ero lì, ad ascoltare le parole del card. Scola rimbalzare sui marmi e all’interno della volta. E ne rimasi colpito. E sono tornato così per diversi anni a seguire, ad ascoltare sempre quelle parole e a lasciarmi colpire ancora, a scorgere ancora la basilica fare capolino sulle acque del Canale. E mi ricordo di esserne tanto rimasto colpito da averne, tempo dopo, comprato dei libricini con la loro trascrizione. Rileggendole, al caldo della mia cameretta, non mi davano più però la stessa incredibile sensazione. Erano un’altra cosa, pronunciate lì e in quell’ora dalla bocca del cardinale.
Mi avevano colpito soprattutto perché finalmente sentivo qualcuno che tentava di porsi gli interrogativi che anche un ragazzino di 16 anni si pone; dandone anche qualche risposta, seppure molto da sgrossare. Le risposte sono importanti certo, ma lo è più porre le domande giuste. Uno a quell’età, che sia credente (che brutta, bruttissima parola che oggi mi suona questa) o meno, si domanda che senso abbia l’esistenza della Chiesa e dei suoi riti, se è esistito Gesù o se sono tutte balle, perché bisogna metter su famiglia e non scopare ad libitum, come mai nel mondo ci sia tanta sofferenza se Dio esiste. Le domande sono poche e precise, e le risposte dovrebbero essere tali. Ma non è così. Le risposte sono evanescenti e senza dubbio prive di quel requisito di evidenza di cui parlava Cartesio. Per cui chi non crede è molto contento perché sente di aver ragione a non credere, e chi ha veramente fede sarà martellato da una dissonanza cognitiva da emicrania, con la confortante soluzione di reprimere tutto e vivere in una sorta di ipocrisia. Il card. Scola era una piacevole eccezione in questa cacofonia; col suo Du Stil e l’insistere sulla bellezza e sul valore quasi eroico della fede e della sua pratica. Un passaggio illuminante, del 2005:
“Quanti dei vostri compagni di scuola, di lavoro, di università ironizzerebbero sulla vostra scelta? “Fare un pellegrinaggio alla Salute… Ma voi siete fuori dal mondo! La vita è un’altra cosa!”. La concretezza della vita sembra indicare tutta un’altra direzione, un altro modo di affrontare la scuola, il riposo, il tempo libero: il modo del “mordi e fuggi”, delle storie occasionali, del provare per provare, o la va o la spacca… che cosa importa il futuro! “Un’altra strada? Sei un illuso!”. Ma c’è anche un’obiezione ancora più infida che parte da noi: “Va bene, anche quest’anno andiamo alla Salute, perché no? Una bella parentesi spirituale una volta all’anno non guasta… L’ho fatto anche l’anno scorso, anche due anni fa, anche tre anni fa. So bene che la vita è un’altra cosa, lo vedo anche nei miei genitori che hanno i loro bei problemi… Andiamo, ma so già cosa diranno il Patriarca e gli altri sacerdoti. Lo so già: ripeteranno le solite cose che conosciamo a memoria (ma chi ci crede più!?): che l’amore è per sempre, che bisogna essere fedeli per tutta la vita, che bisogna essere aperti alla vita, che bisogna lavorare… Le conosciamo queste cose! Ma la vita è un’altra cosa!”.”
Ci vuole tanto? Avrei moltissimo da revisionare oggigiorno, ma penso che siano parole tra le più adatte da pronunciare a dei ragazzi in una basilica.
Così, mentre stasera nel mezzo della compieta fissavo la pala d’altare della Vergine con in braccio il bambino, ripensavo a tutto questo, alla mia storia e a dove sono arrivato e a chi sono, oggi. Tutto è stato sufficiente e necessario e non ho nulla da rinnegare. Sento di essere stato particolarmente fortunato. Ho avuto un sacco di domande che hanno trovato risposta, e sempre una risposta commisurata al mio grado di comprensione possibile. Quando finalmente avevo ottenuto delle risposte soddisfacenti, ho avuto modo di trovare nuove domande che mettessero in discussione di nuovo tutto. E così più volte. E mentre fisso gli occhi della Vergine penso che non ce la faccio proprio a odiare tutto questo, e che tutto ancora mi affascina. La chisa di marmo, la compostezza delle preghiere, la devozione dei seminaristi e di qualche altro ragazzo della mia età presente. Non ce la faccio a odiare anche se so che è tutto contaminato, so che lo schema è fatto apposta per tarpare le ali e preservare l’ignoranza. Tuttavia, è attraverso la Chiesa che sono giunto dove sono e che molti altri ci giungeranno, perché Lui semina dappertutto.
“Ama i tuoi nemici”, ha detto Rabbì.
Esco. C’è un gruppo di rumorosi turisti dell’est in cerchio attorno a un pozzo che usano lo stesso pozzo come piano per prepararsi dei drink. Vado fino a Punta della Dogana. Due volte sono passato per queste mattonelle con 40 km sulla gambe, e mentre ci penso cerco di tracciare con l’immaginazione il ponte che in quelle occasioni sovrasta il Canale e si infila tra gli imbarcadero di San Zaccaria. Torno indietro.
Torno sul ponte votivo e fisso ancora una volta la basilica del Longhena. La guardo a fondo. Dall’alto in basso, da più prospettive. Osservo un vaporetto attraccare. Un pensiero mi passa per la testa. E se fosse questa l’ultima volta in cui la vedrò? Se questo fosse l’ultimo 21 novembre? So di averlo già pensato, un paio di anni fa, ma ciò non toglie… Stranamente, o forse no, una sensazione di pace si impossessa di me. Amen. Così sia. O meglio, è la nostra speranza. Decido allora di fermarmi a guardarla ancora qualche minuto più a lungo, mentre un uomo che carponi sul ponte sta dipingendo a olio la prospettiva. Lui ha capito veramente molto. Voltandomi, me ne vado. Salve Regina…
Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventro tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Paradiso XXXIII