Paura della creatività

PsyBlog, un eccezionale blog inglese di psicologia, cita oggi una serie di studi riguardanti la creatività. Più o meno da quando Goleman ha scritto Intelligenza Emotiva (parecchi anni fa), è di moda nel mondo accademico, nell’economia e nell’industria dire che cioè che è necessario oggi che il sapere è così diffuso e facilmente reperibile, è la creatività. Ma se si va a indagare la realtà dei fatti, si scopre che più delle nuove idee è premiato il conformismo. Così è anche a scuola, dove i bambini creativi non sono molto tollerati, vista la loro tendenza a non seguire le regole.

Ovviamente c’è una sconnessione tra quello che le persone pensano a livello conscio sulla creatività e le loro convinzioni inconscie a riguardo, come ha dimostrato un recente studio. Più o meno così è col razzismo: è difficile che  qualcuno su questo pianeta si dichiari razzista, ma se questo asserto viene messo alla prova, si evidenziano dei comportamenti razzisti in una non nulla percentuale di persone.

Tutto ciò sembra sia legato al fatto che una nuova idea porta inevitabilmente con sé una dose di incertezza riguardo il futuro. E l’incertezza è un sentimento che gli essere umani tendono a evitare. Così, per evitare di sentirci male, buttiamo con lo sciacquone le nuove idee e continuamo a fare quello che abbiamo sempre fatto. Inutile dire che è un ragionamento fallace, perché da un momento all’altro possono crollare anche i riferimenti più solidi di una vita. E in quel momento, cosa farai? Verrai risucchiato con loro? L’unica via è porre la propria certezza in ciò che non crollerà mai, in ciò che ancora non esiste.

 

Un tema ricorrente di questo blog è quello dell’educazione. Si è sostenuto diverse volte che le più buone intenzioni nei confronti dei bambini sono uno dei mali più grandi e subdoli di sotto il sole. Ancora peggio perché l’assoluzione sociale e psicologica, date le “buone intenzioni”, è automatica. Aggiungo oggi un passo illuminante tratto da un libro che sto leggendo, Dialoghi con l’angelo:

L. Perché l’uomo vuole avere tutto, e tutto già pronto?
– Infanzia viziata.
Giocattoli pronti – sapere pronto –
cibo pronto – esperienze pronte.
Queste riceve il bambino, e ne prova disgusto.
La sua sete di conoscenza, la sua gioia di creare –
tutto ciò che forma veramente l’essere umano, inaridisce.
La gioia di sperimentare?
I tanti, buoni conisgli la uccidono.
Tutto questo è vigliaccheria e mancanza di fede.
QUANDO IL BAMBINO DIVIENE ADULTO,
TUTTO IN LUI È GIA’ MORTO.

Ayn Rand e i Griffin

Riguardo Ayn Rand e la sua opera più importante, La rivolta di Atlante (1957):

Un tema ricorrente lungo tutto il libro è che la società moderna sta mietendo un raccolto fallimentare di postmodernismo e collettivismo cultural-relativista. La cultura è decaduta così tanto che le persone si sono ridotte agli istinti più bassi, e una paura esistenziale (data dal non avere valori oggettivi su cui formare il proprio codice morale) le fare ritirare all’interno di organizzazione collettiviste e attaccare chiunque aneli alla grandezza inviduale. In un clima del genere le persone glorificano la mediocrità e il fallimento, rovesciando i valori umani di duro lavoro, abilità, e creazione di ricchezza.

Ora nominiamo il cartone animato più popolare tra i teenager (e anche fra i vent’enni). Sono i Griffin. La storia di un obeso e insulso uomo di mezza età, incapace di compiere la benché minima azione sensata. Non nego, anche a me fa ridere parecchio. Ma non sono risate di simpatia. Peter Griffin non mi sta simpatico. A molti, invece, penso sia simpatico. Lo assumono inconsciamente come modello, perché vedono in lui la giustificazione della propria mediocrità, un fratellone con cui condividere fallimenti, esaltare la propria pigrizia e golosità. Lui è la fonte morale da cui scaturiscono gli imperativi che tracciano la strada per eccellere (finalmente eccellere!) nel campo del ritardo mentale.

Alla fine, nel cartone animato, dopo che Peter Griffin ha bruciato la casa o ucciso il suo migliore amico, arriva il Deus ex machina del disegnatore a ripristinare tutto com’era prima non appena inizia la puntata successiva. Nella realtà, lo spettatore dei Griffin invoca il welfare, la scuola, lo stato, qualcun altro purché non sia lui, a porre rimedio alla sua miseria.

Fortuna e forme-pensiero

Nel quarto episodio della serie di speciali di quest’autunno, Derren Brown realizza un esperimento sociale sul significato della fortuna. Fa in modo che in una cittadina della campagna inglese sia sparsa la voce che la statua di cane del parco cittadino sia, in qualche modo, fortunata. Si propone di osservare la reazione degli abitanti del luogo e gli eventuali effetti che la statua avrà sulla loro vita.

Nell’idea di Derren, la differenza tra una persona fortunata e una sfortunata è che la prima, dato il proprio sistema di convinzioni, si metterà più in gioco nella propria vita e sarà portata a cogliere più occasioni, alcune delle quali le porteranno dei vantaggi. Colui che si ritiene sfortunato invece non coglierà nessuna occasione, dato che a lui non capita mai qualcosa di buono. E così nulla di buono continuerà a capitargli mai. Ciò viene dimostrato appunto nel corso nell’episodio, quando a Wayne il macellaio, che si ritiene arcisfigato, egli presenta una serie di opportunità che, se colte, gli porteranno qualcosa di buono. Alcune piuttosto ovvie, come quando pone sul suo cammino una banconota da 50 quids. Ma lui clamorosamente manca di vederla, come ha fatto per tutte le opportunità precedenti.

Nell’intento di Derren però non c’è solo la dimostrazione sociologica della sua tesi, ma anche una verifica degli effetti del “cane fortunato” sulla vita delle persone. La voce nella città dopo qualche settimana imperversa: gli abitanti si scambiano storie di eventi fortunati successi dopo aver accarezzato l’impassibile e granitico cane del parco.

Passati tre mesi dalla prima insinuazione, Derren si presenta in città con l’intento di provare se il cane sia davvero fortunato: il vincitore di un’asta avrà la possibilità di puntare la cifra offerta su un singolo lancio di dado, con l’eventuale vincita sei volta la posta. Nello svolgersi della mimesis, si scopre che il vincitore dell’asta è proprio il macellaio Wayne, che in qualche modo sembra voler cogliere l’occasione di espiare la sua intera vita di occasioni mancate prendendo il primo, clamoroso, rischio possibile: è pronto a giocarsi tutti i suoi risparmi. Le parole finali di Derren, prima che il fatidico lancio sia compiuto, sono sibilline: la statua, essendo tutta un’invenzione, non dovrebbe portare alcuna fortuna – dice -, d’altronde è possibile che l’idea di essere fortunati possa modificare inconsciamente i comportamenti, anche nel caso del lancio di un dado. È comunque più interessante quando questa serie di fenomeni riguarda l’uomo stesso, piuttosto che qualche entità soprannaturale, afferma.

La scena finale è di quelle trionfali, allorché il numero prescelto compare sulla faccia superiore del dado tratto.

Certo, 1/6 non è certo una probabilità infima, però è significativo che sia uscita, in un’occasione così eclatante e ricca delle aspettative di tutto il pubblico. Pura casualità? Tiro pilotato inconsciamente? Ai miei occhi, le conclusioni da trarre sono di natura diversa. Tutto si spiega in maniera molto semplice utilizzando un concetto proveniente dal mondo dell’esoterismo: quello di forma-pensiero, o egregora.

La forma-pensiero è come un’ameba energetica che vive in un piano eterico (ovvero non percepibile con i nostri sensi, ma non necessariamente al di fuori del nostro universo) e si nutre e prende vita grazie ai pensieri umani. Queste forme, una volta raggiunta una massa critica, possono acquisire vita propria (ma assolutamente non una coscienza propria) e cominciare ad operare intervenendo sulla nostra realtà, con l’unico scopo di perpetuare la propria esistenza. Proprio come farebbe una spugna o un fungo. Esistono forme-pensiero di tutto: del calcio, della Chiesa, degli alieni, del telegiornale di Canale 5. Tutte queste, abbiamo detto, vogliono solo trovare nuovo nutrimento (captare nuovi pensieri): la forma-pensiero degli alieni, quindi, farà in modo di prendere consistenza fisica sotto forma di nuovi ufo e nuovi rapimenti, in modo che più gente pensi a lei e scarichi le proprie emozioni su di lei.

Per formare una forma-pensiero servono le energie psichiche di una moltitudine di persone: ecco quello che è successo col cane fortunato di Todmorden. Arrivato al momento della prova, la forma-pensiero aveva abbastanza energia per controllare il lancio del dado, garantendo quindi la sua sopravvivenza nei pensieri delle persone.

Quella che chiama in causa le forme-pensiero oltre a essere una soluzione esaustiva, a pensarci bene rispetta anche  le condizioni poste dallo stesso Derren Brown. Non chiama in causa qualche entità esterna, ma l’uomo stesso. Ricade perfettamente nella categoria di “comportamenti modificati dall’inconscio”, solo che l’inconscio non è esclusivamente personale ma piuttosto collettivo, e ciò non è limitato ai comportamenti, ma anche agli stessi eventi temporali della nostra realtà.

Apprendimento dinamico

Robert Dilts, uno tra i più classici degli autori di PNL, ha affrontato il tema dell’apprendimento alla luce degli strumenti della Programmazione Neurolinguistica. Ne sono usciti una serie di conferenze negli anni ’90 e un libro. Ho comprato il libro. Si chiama Apprendimento Dinamico. Dal titolo può sembrare una di quelle cose fumoso. Invece no.

L’apprendimento è detto dinamico nel senso che il suo obiettivo è in realtà lo sviluppo della capacità di imparare a imparare. Ciò significa comprendere i propri processi mentali di apprendimento e quelli altrui, formarsene una metacognizione (parola che tanto piace agli autori) col fine riuscire a migliorarli. E’ ovvio (e dovrebbe sconcertare che sia così ovvio) che nelle scuole non si insegna a imparare, non si insegna a studiare, non si insegna ad avere cognizione delle proprie capacità. Qualche volta forse un insegnante dà dei consigli. Il che è già qualcosa, ma è come dare al bambino affamato un pesce, e non insegnarli a pescare. Altre volte invece l’insegnante spiega il proprio metodo di apprendimento (“facciamo una lezione su come si studia”), che è un sistema che di sicuro funziona per lui, ma non è detto che funzioni anche per le altre persone o che non possa esistere qualcosa di meglio.

Perché succede tutto questo? Perché non si insegna a imparare? Semplicemente perché l’insegnante ha fatto molta fatica a imparare quello che ha imparato, e vuole che gli studenti facciano altrettanta fatica. Non ha nessun vantaggio psicologico a rendere le cose semplici. Ma a riguardo, le stesse parole di Robert Dilts e Todd Epstein sono di sicuro più efficaci delle mie:

“La stessa cosa può succedere agli insegnanti. Si creano la convinzione che, in quanto tali, devono occupare la parte anteriore dell’aula, possono agire solo in un modo e avere soltanto certi tipi di interazioni. Credono che, se fanno qualcosa che esula dai comportamenti prescritti, non sono più “insegnanti”. Se ci vengono date più alternative di interazione, ma quelle stessse alternative sono limitate dalle nostre credenze su ciò che un insegnate è consentito fare, sono proprio quelle credenze a legarci le mani. Non è vero che non abbiamo alternative con gli studenti, è che le nostre convinzioni ci dicono: ‘Quella porta non si apre. Non ti è permesso varcare quella porta, perché un insegnante non può agire in quel modo’.”

“Un libro intitolato The One Minute Manager costituisce un ottimo esempio per illustrare questa posizione: vi si parla di un manager che va a parlare con l’insegnante del figlio, che ha qualche problema scolastico. Durante il colloquio, il padre mette in evidenza che, in quanto manager, ha scoperto quanto sia importante per una ditta che tutti i dipendenti riescano a portare a termine con successo i propri compiti; racconta anche di avere scoperto che, fornendo ai propri collaboratori obiettivi e strumenti di verifica chiari, si ottengono migliori risultati. Suggerisce poi all’insegnante di presentare ai bambini le domande dell’esame finale all’inizio dell’anno scolastico, di modo che possano sapere cosa sarà importante, per quale scopo studiare e come valutare i propri progressi.

L’insegnante rimane disorientato e sbalordito e risponde: “Non posso fare questo. Così otterrebbero tutti il massimo dei voti!”. Una risposta del genere sottintende che il problema sollevato dal suggerimento del manager è proprio questo: tutti andrebbero bene a scuola e la scuola smetterebbe di funzionare come un filtro. […] Anziché sulla capacità di pensare in modo creativo o produttivo, si viene esaminati in base al grado di accettazione e comprensione dei valori e dei presupposti del sistema.”

Inoltre una cosa fondamentale su cui la maggior parte delle insegnanti non è stata istruita (e non ha l’iniziata per istruirsene) è la stratificazione dei livelli di apprendimento. Partendo dal più terreno e risalendo al più etereo, possiamo elencare: ambiente, comportamento, capacità, valori-motivazione, identità. Gli insegnanti (a parte rare eccezioni) non riescono a identificare i problemi che vanno al di là del comportamento. Correggendo un compito indicano all’alunno cosa ha fatto bene e cosa ha sbagliato, ma non gli spiegano mai la cosa più importante: come modificare i propri processi mentali (le capacità) per portare a termine in maniera effice il compito. Forse qualche insegnante ha fatto un fumoso corso dove si insegna a motivare in qualche modo, più o meno efficace, gli studenti; ma dalla mia esperienza più o meno tutti falliscono miseramente nel far superare i problemi di valori (“non vedo perché dovrei imparare x”). Figuriamoci poi quelli di identità (“Non sono bravo in x”). Ancora di più perché a volte i problemi di identità riguardano proprio l’insegnante stesso. Io stesso riconosco di avere avuto, più volte nella mia vita, difficoltà ad imparare qualcosa perché odiavo l’insegnante, e quindi se fossi diventano bravo in quella materia mi sarei reso simile a lui.

Una cosa che poi nel nostro mondo e quindi anche nel sistema scolastico è decisamente sopravvalutata è l’impegno (o la volontà) rispetto alla strategia (quindi le capacità):

“Spesso il feedback che forniamo agli studenti consiste nel dir loro dove sbagliano, quello che non ci piace o che non dovrebbero fare. Anziché procurare loro una strategia più efficace, diciamo agli allievi: ‘Non ti stai impegnando abbastanza’. ”

E questo è il fallimento dell’istruzione. E’ il fallimento del processo di prendere quello che di buono è stato inventato e renderlo alla portata di tutti. Nelle scuole viene coltivato il mito dell’intelligenza, viene detto che se c’è qualcuno che è naturalemente più bravo rispetto agli altri non c’è nulla da fare, se non compensare le differenze con una maggiore profusione d’impegno. Strategia che, come è sotto gli occhi di tutti, è destinata al fallimento. Viene tenuto nascosto il piccolo grande segreto delle strategie, il fatto che queste si possano modellare da chi è più bravo e riprodurre.

Ci sono anche le prove sperimentali. Un paio di studi controllati hanno dimostrato che la tecnica di spelling (il case study più ecclatante portato nel libro) desunta dal modellamento e dalla PNL ha portato un miglioramento nei test del 25% a breve termine e del 15% a lungo termine (si parla sempre di bambini). Inoltre, l’adozione di un sistema di apprendimento basato sulla PNL in una scuola elementare della Pajaro Valley con serie difficoltà (un’elevata percentuale di bambini ispanici), l’ha trasformata in due anni nella seconda miglior scuola del distretto. E la più brava insegnante di spelling era una bambina di 11 anni.

Remember remember the twenty-first of November

The end is where we start from. TS Eliot lo diceva nell’ultimo dei suoi quartetti e io l’ho sempre trovato vero. Per questo oggi sono tornato dove è cominciato tutto. O perlomeno, molto.

Volevo arrivare alla Basilica della Salute in tempo per la compieta, l’ultima preghiera della sera.  Volevo arrivare e ce l’ho fatta, nonostante l’aubotus dell’Actv in ritardo del 100% (15 minuti su 15 di tragitto dal capolinea, a strade sgombre s’intende), nonostante abbia sbagliato più volte strada a Venezia, intestardendomi a volerne fare una più lunga in modo da giungere alla basilica nel modo migliore, attraverso il ponte votivo galleggiante.

Sono arrivato ed era sempre là, la mia chiesa preferita, la basilica del Longhena col le sue volute che la parallasse gradatamente disvela dal contorno dei palazzi sul Canal Grande. Dentro una cinquantina di persona, il ché mi ha confermato come fosse quello sicuramente il momento più adatto per rendere omaggio alla più bella festa veneziana, lontano dalle masse che ne avevano calpestato i pavimenti per tutta la giornata.

Dicevo, sono tornato da dove avevo cominciato perché il 20 novembre 2003 ero lì, ad ascoltare le parole del card. Scola rimbalzare sui marmi e all’interno della volta. E ne rimasi colpito. E sono tornato così per diversi anni a seguire, ad ascoltare sempre quelle parole e a lasciarmi colpire ancora, a scorgere ancora la basilica fare capolino sulle acque del Canale. E mi ricordo di esserne tanto rimasto colpito da averne, tempo dopo, comprato dei libricini con la loro trascrizione. Rileggendole, al caldo della mia cameretta, non mi davano più però la stessa incredibile sensazione. Erano un’altra cosa, pronunciate lì e in quell’ora dalla bocca del cardinale.

Mi avevano colpito soprattutto perché finalmente sentivo qualcuno che tentava di porsi gli interrogativi che anche un ragazzino di 16 anni si pone; dandone anche qualche risposta, seppure molto da sgrossare. Le risposte sono importanti certo, ma lo è più porre le domande giuste. Uno a quell’età, che sia credente (che brutta, bruttissima parola che oggi mi suona questa) o meno, si domanda che senso abbia l’esistenza della Chiesa e dei suoi riti, se è esistito Gesù o se sono tutte balle, perché bisogna metter su famiglia e non scopare ad libitum, come mai nel mondo ci sia tanta sofferenza se Dio esiste. Le domande sono poche e precise, e le risposte dovrebbero essere tali. Ma non è così. Le risposte sono evanescenti e senza dubbio prive di quel requisito di evidenza di cui parlava Cartesio. Per cui chi non crede è molto contento perché sente di aver ragione a non credere, e chi ha veramente fede sarà martellato da una dissonanza cognitiva da emicrania, con la confortante soluzione di reprimere tutto e vivere in una sorta di ipocrisia. Il card. Scola era una piacevole eccezione in questa cacofonia; col suo Du Stil e l’insistere sulla bellezza e sul valore quasi eroico della fede e della sua pratica. Un passaggio illuminante, del 2005:

“Quanti dei vostri compagni di scuola, di lavoro, di università ironizzerebbero sulla vostra scelta? “Fare un pellegrinaggio alla Salute… Ma voi siete fuori dal mondo! La vita è un’altra cosa!”. La concretezza della vita sembra indicare tutta un’altra direzione, un altro modo di affrontare la scuola, il riposo, il tempo libero: il modo del “mordi e fuggi”, delle storie occasionali, del provare per provare, o la va o la spacca… che cosa importa il futuro! “Un’altra strada? Sei un illuso!”. Ma c’è anche un’obiezione ancora più infida che parte da noi: “Va bene, anche quest’anno andiamo alla Salute, perché no? Una bella parentesi spirituale una volta all’anno non guasta… L’ho fatto anche l’anno scorso, anche due anni fa, anche tre anni fa. So bene che la vita è un’altra cosa, lo vedo anche nei miei genitori che hanno i loro bei problemi… Andiamo, ma so già cosa diranno il Patriarca e gli altri sacerdoti. Lo so già: ripeteranno le solite cose che conosciamo a memoria (ma chi ci crede più!?): che l’amore è per sempre, che bisogna essere fedeli per tutta la vita, che bisogna essere aperti alla vita, che bisogna lavorare… Le conosciamo queste cose! Ma la vita è un’altra cosa!”.”

Ci vuole tanto? Avrei moltissimo da revisionare oggigiorno, ma penso che siano parole tra le più adatte da pronunciare a dei ragazzi in una basilica.
Così, mentre stasera nel mezzo della compieta fissavo la pala d’altare della Vergine con in braccio il bambino, ripensavo a tutto questo, alla mia storia e a dove sono arrivato e a chi sono, oggi. Tutto è stato sufficiente e necessario e non ho nulla da rinnegare. Sento di essere stato particolarmente fortunato. Ho avuto un sacco di domande che hanno trovato risposta, e sempre una risposta commisurata al mio grado di comprensione possibile. Quando finalmente avevo ottenuto delle risposte soddisfacenti, ho avuto modo di trovare nuove domande che mettessero in discussione di nuovo tutto. E così più volte. E mentre fisso gli occhi della Vergine penso che non ce la faccio proprio a odiare tutto questo, e che tutto ancora mi affascina. La chisa di marmo, la compostezza delle preghiere, la devozione dei seminaristi e di qualche altro ragazzo della mia età presente. Non ce la faccio a odiare anche se so che è tutto contaminato, so che lo schema è fatto apposta per tarpare le ali e preservare l’ignoranza. Tuttavia, è attraverso la Chiesa che sono giunto dove sono e che molti altri ci giungeranno, perché Lui semina dappertutto.

“Ama i tuoi nemici”, ha detto Rabbì.

Esco. C’è un gruppo di rumorosi turisti dell’est in cerchio attorno a un pozzo che usano lo stesso pozzo come piano per prepararsi dei drink. Vado fino a Punta della Dogana. Due volte sono passato per queste mattonelle con 40 km sulla gambe, e mentre ci penso cerco di tracciare con l’immaginazione il ponte che in quelle occasioni sovrasta il Canale e si infila tra gli imbarcadero di San Zaccaria. Torno indietro.

Torno sul ponte votivo e fisso ancora una volta la basilica del Longhena. La guardo a fondo. Dall’alto in basso, da più prospettive. Osservo un vaporetto attraccare. Un pensiero mi passa per la testa. E se fosse questa l’ultima volta in cui la vedrò? Se questo fosse l’ultimo 21 novembre? So di averlo già pensato, un paio di anni fa, ma ciò non toglie… Stranamente, o forse no, una sensazione di pace si impossessa di me. Amen. Così sia. O meglio, è la nostra speranza. Decido allora di fermarmi a guardarla ancora qualche minuto più a lungo, mentre un uomo che carponi sul ponte sta dipingendo a olio la prospettiva. Lui ha capito veramente molto. Voltandomi, me ne vado. Salve Regina…

Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventro tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.

Paradiso XXXIII

Vienna

Pensieri sparsi sul mio breve soggiorno a Vienna. Attenzione: non li ho riletti. Se fossi in vena di lamor limae li intermezzerei con versi. In particolare Ash Wednesday di T.S. Eliot. Se fossi un lettore poi metterei nelle orecchie l’ultimo disco dei Coldplay, Mylo Xyloto.

In genere quando parto per un viaggio ho aspettative talmente basse che è impossibile rimanere deluso. Così sembra essere stato anche per questo mistico ponte dei morti (o dei santi?), nell’età in cui le prime nebbie cominciano ad alzarsi nei campi la mattina, le prime nebbie cominciano ad addensersi nella mia testa per poi inevitabilmente avere una crisi, più in là, avanti. Ma viaggiare verso nord è sempre stata un’attività gradita al mio animo. Prima o poi conquisterò anche l’est, ma per ora il nord va bene.

Vienna si dice fosse un crogiolo di culture in qualche tempo ormai andato e sicuramente da rimpiangere o forse no. E così mi piace ancora pensarla oggi. Mi immagino Vienna con l’imperatore e il divano di Sigmund, con i vari Haydn, Schubert che suonano agli angoli delle strade come mendicanti qualunque. E un po’ è ancora così dato che arrivi in autostrada e pensi di vedere macchine con targhe austriache? Noooo!Ci sono italiani, ungheresi, cechi, sloveni, tedeschi.

Il traffico austriaco è veloce, ma composto. Le auto sgommano ripartendo al semaforo e curvano senza frenare, ma si fermono anche prima che il pedone manifesti l’intenzione di attraversare la strada. E’ evidente che gli austriaci amano il codice delle strada. Ci sono piste ciclabili dappertutto, e nessuno ci cammina sopra. Gli austriaci sono anche matti per i limiti di velocità. In città li vedi andare tutti a 55 all’ora, precisi come se fossero regolati da un computer centrale, come se fossero semplicemente appoggiati ad un nastro trasportatore. Ogni tanto c’è qualcuno che va a 57, e supera. 

Nei pezzi di autostrada in cui per qualche motivo c’è un limite più basso (100 all’ora), per quanto siano minuscoli (tempo di entrare e uscire da una galleria), l’austriaco frena, raggiunge la velocità di crociera di – l’hai indovinato – 105, e non appena passa il cartello che abolisce il limite precedente, apre a tutta finché non arriva ai 130.

Arrivo in albergo desideroso di mettere alla prova il mio tedesco, magari evitando di impappinarmi completamente alle prime tre parole come peraltro feci alla prima volta a Londra, suscitando la comprensibile ilarità dell’immigrato indiano alla reception (quale disonore). Tra una cosa e l’altra riesco anche a farmi dare la password della connessione wi-fi. Collego il telefono assetato di dati come un cane nel deserto lo è di acqua e subito un’invadente notifica turba il mio tranquillo principio di viaggio: “Risultato finale: Chelsea-Arsenal 3-5”. MA RAGAZZI, MI VOLETE MORTO? Cos’è successo a Stamford Bridge? Cosa avete combinato? Sono risultati che vanno metabolizzati piano piano, non li posso digerire così, tutto in un boccone.

Esco ad esplorare il centro. C’è poca gente in giro, nonostante sia una capitale. Mi pare di aver pensato lo stesso riguardo a Lubiana. Cinque minuti di strada e sono davanti all’imponente municipio. Evidentemente i miei non hanno studiato molto di storia medievale, perché subito si chiedono se il municipio fosse, chessò, un’ex-chiesa. Nono, rispondo io guardandoli stralunato, è sempre stato un municipio. Loro mi guardano ancora più stralunati. E’ un momento di stallo. Sono stato a Monaco, Amburgo… Son tutti così, capite quanto possono essere matti i mercanti protestanti. Non sono ancora molto convinti.

Un po’ più tardi, mentre ne ammiro ancora i pinnacoli, vengo avvicinato da un vecchio signore: “Entschuldigen Sie, ist dieses das Stephansdom?”. Un altro che l’ha scambiato per una chiesa. Sarò io quello matto.

L’illuminazione stradale qui è gialla al punto giusto e molto soffusa. Se uniamo ciò alla abituale nebbiolina serale, al bianco pulito dei palazzi e al verde del rame ossidato delle guglie e dei campanili, ne risulta un’armonia di colori che non diresti possa venire altrimenti che da un mondo fantastico di imperatori e principesse. Sono nella piazza davanti all’Hofburg, la residenza degli Asburgo. Gli urbanisti di tutto il mondo (ammesso che ne esistano ancora) dovrebbero venire qui, distillare quest’atmosfera e riprodurla in tutto il mondo. Anche i legislatori che riempiono di lampioni le strade e vogliono i fari accesi anche di giorno: per rendersi conto della semplice realtà che di notte, con molta luce, si vede poco. Con poca luce, si vede molto.

Da un portone dell’Hofburg esce qualche persona. Sono le sette passate. Metto il naso dentro. C’è la “biblioteca nazionale”. Non dev’essere male venire a studiare nella casa dell’imperatore. Di sicuro meglio di piazza Mercato a Marghera.

La piccola rotondina trilobata che costituisce il centro del centro di Vienna, da una parte l’Hofburg e dall’altra la via più commerciale della città, è gremita di sabato pomeriggio. Al centro, un uomo, giovane e vestito elegante, suona il violoncello. Appoggiati a una muretta, una cinquantina di turisti lo ascoltano intentamente. Una ragazza lo guarda rapito. Uno che era uscito a pattinare si improvvisa qualche figura mentre fa lo slalom tra i passanti. Ecco la Vienna che volevo.

Ecco la Vienna che volevo. Ecco la Vienna che… Ecco la… Come non detto. STA… STAR… STARB… No non può essere. Non può essere. Sì, è proprio così. C’è uno Starbucks. Lì, nel centro del centro. E non sarà l’ultimo. Alla fine della gita, ne avrò visti almeno altri tre.

Italiani ovunque, italiani anche qua. Donna che parla e si lamenta: “Pecccché a MMilano c’è la Rinascente… Là trovi tutto… Qua non c’è la Rinascente”. Potevi startene a RRRegggiocalabbria e non venire a rompere i maroni qua.

Gli austriaci sono matti per il codice della strada, ma adesso so che sono matti anche per la camminata sportiva. Li vedi arrivare, a volte soli ma spesso anche a coppie, marito e moglie o semplicemente morosi, cuffie nelle orecchie e ipod nano clippato alla maglia, aderente e in tessuto tecnico. Pantaloni lunghi attilati, fascia per le orecchie e talvolta guanti. Scarpe da corsa. Ma camminano. Camminano. Un po’ veloce sì, ma – che diamine – camminano.

Verso le nove le vie del centro si affollano. Era ora. C’è comunque meno gente che in una qualsiasi città italiana, ma ce n’è. Un uomo si mette a suonare la chitarra davanti alla vetrina di un negozio. E’ questa la Vienna che conosco. Sento provenire delle urla da più avanti. Degli sbraiti. Cammino. Mi avvicino. C’è un uomo, o meglio dire ex-ragazzo, con la chitarra al collo che canta, stempiatura avanzata e capelli pettinati all’indietro con la brillantina. Di fronte a lui, un gruppo di quattro cinque sostenitori casuali che canticchiano e battono le mani. Pian piano le urla prendono forma e chiarezza e mi permettono di intendere. Sta cantando i Credence Clearwater Revival. Non ci posso credere. Mi stropiccio un po’ gli occhi, ma lui cambia canzone. E’ The House of the Rising Sun. Mio papà: “Ma questa è dei miei tempi… La cantavo con la chitarra. Che strano, quel tipo è giovane”. Guarda meglio, papà, guarda meglio.

Vicino all’Hotel Sacher, o meglio stretto tra l’Hotel Sacher e il Cafè Mozart, di fronte al teatro dell’opera, c’è un negozio di vestiti. Vendono bastoni da passeggio e ombrelli in abbondanza. C’è anche l’Acqua di Parma. Serietà.

Dietro all’Albertina, che è un palazzo sempre sede di esposizioni di quadri, c’è un parco con una serra. Imponente solo come avevo visto nel film di Batman. Parcheggiata davanti alla serra, una Citroen d’epoca. Mio papà fa una serie di apprezzamenti. Io annuisco ma un po’ nicchio. Dopodiché mi accorgo di una cosa. Il volante. Ha una razza sola. Favolsa favolosa.

Di nuovo alla rotondina trilobata. Passa un chopper. Un vero chopper. Tre ruote: quelle posteriori da almeno 300, a occhio. Un tamarro austriaco ben piazzato in mezzo. Sull’asse posteriore, una cassa di legno. Di almeno ottanta centrimetri. Dentro, un cane che guarda fuori curioso i turisti.

Sera sulla Kärtnerstraße. Un mimo, di quelli che stanno fermi fermissimi tutto il giorno, si è appena sfilato il suo costume. Avrà circa sessant’anni. Ha ripiegato tutto dentro una valigietta dagli angoli consumati e piena di adesivi, non tutti ormai ancora attaccati perfettamente. La faccia è ancora truccata. Così, con la valigia in mano fissa il suo angolo di lavoro, il suo quadrato di pavimentazione, come se dovesse controllare di aver preso tutto. Di non essersi dimenticato qualcosa. Poi guarda i passanti. Poi ancora il pavimento, per lunghissimi secondi. Sempre fermo sullo stesso posto, come se non avesse davvero voglia di smontare e andare a casa, come se la giornata fosse stata troppo breve, come se volesse lasciare lì la sua ombra ancora per tutta la notte. Io passo a fianco a lui. Cerco di incrociare il suo sguardo, ma non lo trovo. Vado avanti una ventina di passi, mi giro. E’ ancora lì. Altri venti passi, mi giro di nuovo. Ancora non si è mosso da quell’angolo di Kärtnerstraße.

Schönbrunn è il crogiolo dell’imbuto dei turisti di tutta la Mitteleuropa. È perciò un posto dove provo sofferenza solo a starci, in questo lunedì 31 ottobre. Sono modernizzati e organizzati per visite in massa di folle ansiose di stupirsi delle stupide sale degli imperatori. Macchinette per i biglietti, depliant e commesse che parlano multiple lingue, indicazioni ovunque su come incanalarsi in coda e su che percorso seguire. C’è persino il wifi gratuito su tutta la residenza. Quest’ultima cosa, confesso, mi piace. 

Ad ogni modo sono gli aspetti della vita privata quelli che più mi interessano. La risposta alla domanda: cosa vuol dire essere imperatore? 

Franz Joseph e Sisi si sposano nel 1861, con lei ancora quindicenne e nel fiore degli anni, in una fase di alta manipolabilità. Dal 1871 dormono in camere separate. Pensavo che fosse perché, in effetti, a 25 anni la fase di decadenza è ormai iniziata, e l’imperatore volesse liberarsene per poter accedere a più giovane compagnia. 

Inoltre vengo a sapere che Sisi teneva molto alla sua linea, e che periodicamente si sottoponeva a fasi di digiuno per dimagrire. Questo è un altro segno che si sente in dovere di rimanere in forma per il suo marito alpha, vero?

E invece no. Nonostante l’imperatore amasse perdutamente Sisi, questo amore non ed ricambiato, come si evince dai suoi diari. Alla luce di tutto ciò ella si teneva magra per l’istinto di combattere l’età ed essere pronta per la venuta di un uomo migliore nella sua vita. Cosa che non sarebbe mai potuta accadere, peraltro. Scopro anche che, a tavola, mangiavano sempre l’uno di fronte all’altra. Terribile. Morale della favola: puoi essere anche l’imperatore con il regno più grande del mondo, ma se non sei alpha, non lo sei. 

Come lavorava sua maestà? Sembra che passasse gran parte del suo tempo seduto alla scrivania, a lavorare fino a sera sulle carte dell’impero. La sua giornata cominciava invece con la sveglia alle 5 del mattino. È evidente a chiunque che l’imperatore, pur pieno di buona volontà, non sapeva fare bene il suo mestiere. Se hai da lavorare, ogni giorno, fino a notte fonda, significa che sei tu a costituire un collo di bottiglia per il funzionamento della macchina statale. Avrebbe dovuto cominciare dallo scegliersi un gruppo di collaboratori fidati, e delegare. 

Per visitate le residenze imperiali ti forniscono gratuitamente di una specie di ricetrasmittente. Per audioguidarti. Bello. Ascoltare le voci registrate è sempre divertente. Alla fine del tour, ho preso il foglio di valutazione della visita. L’ho compilato. Ho scritto, voglio Siri. 

Negozio di Schönbrunn. Bibbbite caramelle palle di Mozart ovunque. Vari oggetti di pessimo gusto. Un cd di musica classica ha il seguente titolo: Don’t get stressed, get Straussed.

La via con i migliori negozi di Vienna, il Grauben, ha palazzi antichi, palazzi nuovi, e palazzi antichi restaurati. Uno di questi ultimi, ha delle alte vetrine con fondo scuro. Cornice in oro, marmi verde scuro a completare la facciata. Portone imponente in legno. Dentro venda una marca di abbigliamento. Hermés? Louis Vuitton? No, H&M.

Blessed sister, holy mother, spirit of the fountain, spirit of the garden,
Suffer us not to mock ourselves with falsehood
Teach us to care and not to care
Teach us to sit still
Even among these rocks,
Our peace in His will

Solite infatuazioni

Ho scoperto i National. E’ stato amore a prima vista. Non sono più abituato a trovare le parole per descrivere una musica, ma ci proverò. E’ la musica ideale per questo autunno. E’ la musica che dà quella che gli altri chiamano depressione, e io concentrazione. E non mi è stato mai chiaro se è un problema di lessico o se semplicemente l’effetto su di me è differente. Accompagna benissimo le serate di studio, di pensiero o di progettazione intensa. Ti culla mentre ti addormenti nella pendolarità. E’ tutto quello che posso chiedere.