Emil Zatopek, dopo la guerra, si era arruolato nell’esercito cecoslovacco. Alla sera, dopo una giornata di esercitazioni di fanteria, prendeva una torcia e si faceva 20 km per i boschi. D’inverno. Con i suoi scarponi da combattimento. Quando la neve là fuori era troppa alta, si immergeva nella grandi tinozze d’acqua calda dove si lavava la biancheria, e ci correva dentro, facendo quelle che oggi gli allenatori moderni chiamerebbero vasche di sabbia. Per fare forza esplosiva, lui e sua moglie si lanciavano un giavellotto da una parte all’altra di un campo da calcio. Ma l’allenamento preferito di Emil era quello che combinava tutte le cose insieme: gli scarponi ai piedi, la moglie in groppa, e via a correre per le foreste della Cecoslovacchia.
Il suo stile di corsa era tutt’altro che elegante: “Corre come se fosse appena stato pugnalato al cuore” scrivevano i giornali. Oppure: “Sembra che stia lottando con un polipo su un nastro trasportatore”. Ma lui rideva e rispondeva: “Non ha abbastanza talento per correre e sorridere insieme. Fortuna che questo non è pattinaggio artistico”.
Quando arrivò alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, Zatopek era solo un trent’enne con pochi capelli che si allenava da solo, senza allenatore, proveniente da un paese totalmente ai margini del mondo di allora. E dato che la squadra cecoslovacca di fondisti era composta praticamente solo da lui, poteva scegliere le gara da correre. E le scelse tutte: i 5000, i 10000, e la maratona.
I 5000 e i 10000 li vinse facile. Ma la maratona… eh non ne aveva mai corso una in vita sua. Quel giorno ad Helsinki faceva molto caldo nonostante la latitudine, e a Jim Peters, il britannico che era detentore del record del mondo e ovviamente puntava alla vittoria, venne in mente di cuocere Zatopek nel caldo di Helsinki. Impose un ritmo forsennato fin dall’inizio, e al diciannovesimo chilometro erano già dieci minuti al di sotto sotto le record del mondo, quando Zatopek si avvicinò a Peters e gli chiese: “Mi scusi signor Peters, questa è la mia prima maratona… Non è che stiamo andando troppo veloci?”. “No – gli rispose il britannico – stiamo andando anzi troppo piano”. Zatopek lo prese alla lettera e accelerò. L’ironia è che il cotto alla fine fu Jim Peters, che quel giorno non arrivò neanche al traguardo, mentre Zatopek vinse. All’arrivo i suoi compagni non fecero nemmeno in tempo a festeggiarlo ché lo stavano già portando in trionfo gli sprinter giamaicani.
Non puoi pagare qualcuno per correre con una gioia così incontenibile. E non puoi neanche costringerlo a forza. Quando nel 1968 l’armata rossa marciò su Praga per sedare i moti per la democrazia, a Zatopek fu data una scelta: poteva salire a bordo con i sovietici e diventare l’ambasciatore dello sport per conto del regime. Ma decise di non vendere l’anima e così finì i suoi giorni a lavorare in una miniera di uranio.
In quegli anni c’era anche un fondista molto forte australiano, Ron Clarke, che aveva tutto quello che Zatopek non aveva: soldi, libertà, capelli. Faceva incetta di titoli locali o nazionali, ma quando le competizioni andavano un po’ oltre soffriva sempre della sindrome dell’eterno secondo. Nell’estate del ’68, dovette rinunciare alla finale dei 10000 di Città del Messico, che avrebbe stravinto, per il mal d’altura. Distrutto, prima di tornare a essere sbeffeggiato in patria, fece un salto dall’amico Emil a Praga. Mentre lo salutava, vide che infilava di nascosto qualcosa nella sua valigia. Ron pensava che fosse qualcosa come un messaggio da portare oltre la cortina; invece in aereo scoprì che era la medaglia d’oro di Helsinki del ’52; con un biglietto: “Perché te lo meriti”. Regalarla all’uomo che lo avrebbe rimpiazzato nel libro dei record sarebbe stata un’azione molto nobile da parte di Zatopek; farlo precisamente nel momento in cui stava perdendo tutto è un atto di una compassione inimmaginabile. Come disse più tardi un Ron Clarke totalmente sopraffatto: “Non c’è, e non c’è mai stato, un uomo più grande di Emil Zatopek”.
[vimeo https://vimeo.com/83487156]
adattato da Chris McDougall, Born to Run