Quando ero piccolo ogni tanto, a letto, pensavo a cosa vuol dire morire. Quello che mi sorprendeva è che alla luce del giorno il pensiero era molto meno spaventevole che nel buio della mia cameretta. Perché mai?
Ogni tanto la paura diventava qualcosa di più, diventava attacco di panico con una parola molto precisa ma che non rende del tutto la situazione. Terrore. E allora col fiatone andavo a rifugiarmi nel letto dei miei genitori. E mi tranquillizzavo. E non ci pensavo più. Come può essere una soluzione il non pensarci più?
Due giorni fa ero disteso a letto. Stavo ascoltando Early Water di Hoenig-Göttsching, come spesso faccio quando voglio entrare nel profondo al di là del flusso dei miei pensieri. E ho ripensato a cosa vuol dire morire. Per diversi minuti non ho sentito paura, nonostante fossi al buio. Sono ormai diversi anni che non ho più paura. Poi però è scattato qualcosa, forse il pensiero si è fatto più viscerale e ha conquistato il mio corpo. Il respiro si è fatto profondo e sono stato assalito dallo stesso terrore di un tempo.
Ma questa volta non mi sono alzato. Sono rimasto lì. Ho voluto mangiarlo, assaporarlo. Non aveva più senso rimandare il confronto. E ho capito una cosa: l’anima non ha paura della morte. Al di là delle cose care che in questo mondo si lascerebbero, le quali probabilmente a lei non sono poi così care, è veramente buffo avere paura di una morte puramente corporale. Ciò che sola può spaventare è la seconda morte: l’annullamento totale. L’anima è solo potenzialmente immortale, e dato che lei è la cosa più importante che abbiamo, il suo ricongiungimento con l’Arché dovrebbe essere la priorità di questa vita, o meglio, di queste molte vite. Il timore ci ricorda che siamo qui per questo.
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Chi vince non sarà colpito dalla morte seconda.
(Apocalisse di Giovanni 2:11)