Storia (vera) di una vita di letture e di un amore conquistato con la solitudine e la memoria.
Ancora oggi in Bengala c’è una vecchia biblioteca soffocante di libri e scaffali, e piante – insolite per noi europei – che fanno ombra sui lettori giunti a consultarla. Gli schedari sono ancora cartelle impolverate scritte a china svolazzante, non i computer delle nostre biblioteche evolute. Ma che sollievo l’abbondante verde, vita che conforta chi vive invece di leggere, e volentieri confonderebbe questi cunicoli claustrofobici con quelli di un sottomarino.
Perché tralaltro nulla assomiglia all’idea di un sommergibile più d’una biblioteca: in lei ci si immerge. Strana acqua fatta di carta, che pertanto ben s’accorda al frequentatore di biblioteche che, se insiste a leggere, ammette senza problemi la propria inettitudine a vivere praticamente. Come accadde a Eufemio Dass Charan, calligrafo nella città del Bengala dove c’è ancora questa desueta biblioteca. L’Impero di Sua Maestà ancora dominava l’India quando lui era giovane, ma già rovinato dall’abitudine di confondere vita e fantasia, dedicava ai libri quasi tutto il tempo avanzato al suo mestiere di scrivano pubblico.
L’oriente è del resto ancora fatto di manie prese sul serio come sarebbe impossibile da noi. E il nostro Eufemio, orfano di un portoghese e di un’indiana di ottima casta, si faceva vanto di sapere a memoria i libri di Stevenson e Verne. Per poi volentieri usarne le frasi, fingersi l’eroe dei romanzi che non era. Questa sua abitudine gli aveva peraltro donato una fama di stravagante che lo lusingava. Del resto non avrebbe avuto né la forza di pensiero né il coraggio per farsi apprezzare altrimenti. Invece, ripetendo epici brani, era divenuto una notevole attrazione e gradiva stare al gioco, ormai per abitudine imparando nuovi libri a memoria. Fino al punto di essere ricercato nelle case dei più ricchi notabili di quella città tropicale dove abitava. E divenire ospite frequente e bene accolto persino nella casa di Rahman Fazlur, noto in quei luoghi per essere ricchissimo e avere una figlia bellissima di nome Fatima. Questa aveva le labbra morbide e chiare e due occhi profondi, puri come il mare nella più calma notte senza luna. La sua pelle era lucente e chiara come il monte Meru; e il suo muoversi per casa lasciava dietro di sé aure di gentilezza.
Era tutto quello che Eufemio non era: natura mai astratta, vita non letta, e già lì senza il bisogno di essere pensata. Così mentre recitava ad alta voce i suoi diversi libri, serata dopo serata, la guardava e se ne innamorava. In modo così evidente che gli altri ospiti del mercante e il mercante stesso se ne accorsero. Come dal primo istante se n’era accorta Fatima, la quale aveva amato dal primo istante il melanconico Eufemio. E già prima di rivolgergli la parola lo vedeva bello come non era. Confusa ulteriormente dalle frasi dei romanzi che recitava, lui smagrito e strabico invece era per lei bello come il dio Rama. Ma, essendo povero, non poteva piacere a suo padre il mercante, e menchemeno a Babul Abul Wazed, che ambiva a sposarla. Fu così che una sera, dopo che Eufemio aveva recitato un lungo brano dei “Tre Moschettieri” di Dumas, Abul spese un elogio per lui; poi guardando l’incantevole Fatima, disse: “Bene Eufemio, ma così è troppo facile, la prossima volta io inizierò a leggere da un punto a caso e tu continuerai”. Il mite Eufemio recitò la sera dopo a memoria, qualunque brano, puntuale. E allora fu Fazlur il mercante a parlare, dicendo: “Non credo, Dass Charan – preferiva chiamarlo col suo nome indiano – che tu possa imparare a memoria una biblioteca. Anzi scommetto che non ci riuscirai, neppure se posta della scommessa dovessi mettere mia figlia”.
Babul Abul, benché avesse congegnato lui quel tranello, fece una smorfia quando sentì ripromessa la sua futura moglie. Ma Eufemio non se ne acorse. Sentimentale come sono i bengalesi, arrossì, guardò Fatima, e per la prima volta si sentì coraggioso: disse sì. Avrebbe imparato a memoria tutti i libri di quella biblioteca. Sarebbe stata la dote che altrimenti non avrebbe potuto mai pagare. E promise: “Non uscirò dalla biblioteca finché non ci sarò riuscito. Voi mi porterete acqua e cibo ogni giorno, per sette anni, che basteranno. Dopodiché uscirò dalla mia prigione di libri, voi proverete la mia memoria, io sposerò la figlia di Fazlur”.
Per sette anni si chiuse in questa biblioteca e ordinò i libri in lunghe file. Ma non bastarono per imparare a memoria tutti i libri. Chiese altri sette anni, Fazlur glieli concesse. E trascorsi quelli ne chiese altri sette. E visto che Fazlur intanto era morto, li chiedette a Babul che aveva ereditato i suoi beni. Ma ci vollero altri ventotto anni perché Eufemio annunciasse che l’indomani sarebbe uscito dalla biblioteca. Babul, che intanto aveva sposato Fatima, fu preso dal panico. Pensò che Eufemio l’avrebbe ucciso. Mandò due sicari a eliminarlo. Ma al mattino costoro gli riferirono di non aver trovato nessuno tra i libri. E neppure fu possibile dopo d’allora trovare sua moglie Fatima.
Dopo qualche tempo, sulle alte montagne del nord si iniziò tuttavia a raccontare di un vecchio cieco che in una capanna era accudito da una vecchia, di ancora rara bellezza, con gli occhi come il mare in una notte senza luna e la pelle chiara, maestosa come il monte Meru.